Come ti racconto la mafia
a cura di Laura Mandolini
Grassadonia e Piazza, giovani registi siciliani che hanno il coraggio di fare i conti con la loro terra in modo diverso e originale
All’Arena Gabbiano di Senigallia c’è stata la proiezione del film “Sicilian Ghost Story”. Abbiamo incontrato i due registi, reduci da un grandissimo riscontro ed applausi dalla critica a Cannes. Si tratta di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza Molta critica ha parlato del vostro film come di qualcosa di quasi inedito nella cinematografia italiana. Siete d’accordo con questa interpretazione?
Effettivamente abbiamo pensato a qualcosa che ci sembra abbia degli elementi di originalità perché il film è ispirato a una storia vera, drammatica, legata alla Sicilia degli anni Novanta, però il film è anche l’adattamento di un racconto che ha per titolo “Il cavaliere bianco” di Marco Maccazzola, in una raccolta Einaudi che si chiama “Non saremo confusi per sempre”. Abbiamo tentato di unire la realtà alla fantasia. Prendere un episodio drammatico senza alcuna speranza e su questo innestare una chiave di racconto fantastico che consegna ad un’avventura di tipo diverso.
Quanto è siciliano questo film al di là del contenuto della storia? Quanto prende a piene mani da questa capacità della vostra terra di far incontrare la dimensione onirica e quella tragica, sempre presente?
Questa storia è essenzialmente siciliana: ha molto a che fare con il nostro passato di vita in Sicilia negli anni ‘80/’90, anni tremendi. Il cuore della nostra riflessione è legato al mondo di mafia. Nel film vorremmo cercare di far emergere in maniera potente la cultura mafiosa, l’approccio alla vita che si è radicato nel cuore dei cervelli siciliani negli ultimi decenni della loro esperienza ed è una modalità di vita in qualche modo espropriata a gente delle proprie qualità umane che ha raso al suolo una relazione possibile con la realtà mediata dalla fantasia, mediata da una possibilità di relazione con l’altro che non sia solo un altro da sopraffare, da annichilire, da dominare, da sfruttare, da ammazzare al fine di costituire i processi. Quello che per noi è fondamentale nelle nostre storie è provare davvero a far percepire dal punto di vista emotivo allo spettatore che cosa una cultura di morte fondata sulla bruttezza e sulla violenza ha prodotto e produce nell’anima e nei modi dello stare assieme della gente…