Quattro mura che racchiudono vita

di Davide Storlazzi

Chiedersi ancora una volta qual è la detenzione che meglio può riabilitare alla vita, a buone relazioni

Mi sono sempre chiesto cosa provassero gli animali rinchiusi dentro la gabbia. Ho sempre nutrito un certo grado di sofferenza nel vederli imprigionati, costretti a rinunciare alla loro natura e ai loro istinti primordiali. Chissà come faranno ad abituarsi! Prendiamo come esempio un leone che per antonomasia rappresenta la forza, il padrone incontrastato della savana o gli uccelli che con le loro ali sono l’emblema della libertà. Come farà il primo a rinunciare al piacere della caccia, al suo istinto di predatore, alle sconfinate corse nella foresta? Sarà capitato a tutti di visitare uno zoo e ammirare questi possenti felini starsene adagiati e dormienti all’interno delle loro gabbie, a consumare il cibo che noi esseri umani gli forniamo senza doversi prendere il disturbo di faticare per averlo. Quanta pena poi nel dover vedere uccelli costretti a starsene nelle loro voliere poggiati intere giornate su quei bastoncini! Quanto dovrà essere brutto non poter volare, quanto mancherà loro il cielo? Ora, chiuso in questa cella, capisco quanto tormento provino, quanto sia aberrante rinunciare alla propria natura, ora che non possono né “cacciare” né “volare”. Comprendo come il carcere, così come una gabbia per un animale, conservi le stesse dinamiche. Sembra un paradosso, ma è così.

L’uomo con il suo spirito di adattamento alla fine accetta nella maggioranza dei casi lo spazio in cui è ristretto, passato l’impatto che genera la differenza tra il fuori e il dentro. Si abitua a quei pochi metri a sua disposizione. Passato il rifiuto, il disgusto, il detenuto inizia a concepire la cella come la propria casa, così inizia quei miglioramenti per rendere più umano possibile questo piccolo spazio. Si organizza quest’ultimo secondo le proprie necessità. Si costruiscono mensole, si ricavano posti per i propri effetti personali. In ogni centimetro libero si iniziano ad attaccare foto dei propri cari, magari su cornici e quadretti artigianali. Insomma, la cella diventa a tutti gli effetti un posto “familiare” o, almeno, si cerca di renderlo la cosa più vicino ad esso. Se non hai le possibilità eonomiche per acquistare i generi del sopravvitto e quindi di cucinarti, ti abitui a mangiare dal “carrello”, ossia il vitto che passa l’Amministrazione e quindi viene meno anche questa preoccupazione.

Sai che alle 7,30 passano latte, thé, caffè, alle 12,00 circa il pranzo, alle 18,00 la cena. Ecco che la preoccupazione principale rimane come trascorrere il tempo. Se hai una mansione all’interno del carcere, oppure nello stesso vi è la possibilità di frequentare dei corsi, sei fortunato. Puoi così passare delle ore tenendoti impegnato, altrimenti quella che si presenta al detenuto è una lenta e costante battaglia contro la monotonia, fatta di giorni e rituali sempre uguali. Inesorabilmente ti appiattisci; anche sfruttare i normali passatempi diventa pesante con il passare degli anni. Giocare a carte, biliardino, leggere, scrivere o quant’altro perdono gli stimoli iniziali e si entra in una dinamica di passività. Passività da tutto ciò che accade fuori e passività da come è strutturato il carcere dentro. Vai a passeggio quando te lo dicono. Vedi i familiari quando te lo dicono, vai in biblioteca quando ti è permesso e vai dal medico nei giorni stabiliti. Quanto questa assenza di stimoli e di padronanza della propria vita è davvero rieducativa per chi ha commesso degli sbagli? Il primo scopo per la società dovrebbe essere recuperare queste persone e non peggiorarle. Sicuramente la letargia e la più totale assenza di occupazione non renderanno certo un detenuto una persona migliore. Dopo un certo periodo di tempo, troveremo una persona che per anni ha solo mangiato e dormito, senza avere avuto la possibilità di perseguire un obiettivo concreto. Cosa farà questa persona una volta varcate queste mura? Come sappiamo avviene per gli animali, i meccanismi che si possono innescare saranno due: o di rabbia o di smarrimento. La prima è la più deleteria perché porterà di nuovo il detenuto a commettere reati. E la seconda, dopo questo stato di annichilimento, porterà il detenuto ad aver paura del mondo che troverà fuori.

Quanto è controproducente, in assenza di un indice elevato di pericolosità, allontanare una persona dai propri affetti e dalla propria vita, dai modelli positivi che possono costituire una possibilità di recupero? Forse, se si comprendesse questo, si arriverebbe ad un nuovo modo di concepire la pena e renderla davvero rieducativa.

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