Il coraggio del futuro

di Matteo Principi (Sindaco di Corinaldo)
dall’inserto “La Finestra” nr. 2

Se penso alla parola “immigrazione” penso al futuro. E se rifletto sul futuro penso ai bambini, cittadini di oggi e di domani: credo che proprio da loro si debba educare a vivere questo fenomeno senza paura.

Perché i bambini possano imparare a rispettare le diversità è necessario che le conoscano, vivendole sulla pelle, affinché le mancate risposte, o le risposte affrettate e poco chiare di oggi, non lascino spazio a una confusione che in futuro potrebbe trasformarsi in pericolosi pregiudizi.

“Immigrazione” quindi come crescita: nell’accoglienza, nel confronto, nella condivisione. Pensiamo alla paura di un bambino straniero il primo giorno di scuola, metafora degli immigrati che arrivano per la prima volta in un nuovo Paese. Il bambino entra in classe, non sa la lingua, non conosce nessuno, ha tutti gli occhi addosso e poche mani tese, ha paura di non capire e di non farsi capire, è solo, diverso, ha paura, la paura e il dolore che nessuno voglia stare o condividere un po’ di tempo con lui. Ha il dolore di aver lasciato la propria terra dove, sì, non si poteva più stare, troppo pericolosa e avara di sogni, ma dove si sentiva libero di essere se stesso, il dolore di aver lasciato parenti, amici che gli volevano bene, luoghi ricchi di ricordi felici. Non ha scelto lui di essere qui (non sempre, almeno), ma ha subìto le decisioni altrui, degli adulti, della guerra, della povertà.

Sono sufficienti poche parole e gesti per ferirlo, ma basta che un bambino gli si presenti con un sorriso, gli dia la mano e tutto sembra più semplice e leggero.

Ogni volta che sentiamo questa parola “immigrazione” – dovremmo pensare al primo giorno di scuola. Qualche settimana fa, quando sono andato in una delle strutture d’accoglienza a Corinaldo, di cui sono sindaco, ho portato con me mia figlia Elena, 6 anni.

Per me è una struttura che accoglie i migranti, per Elena è la casa delle sue amiche.

La scuola ricoprire un ruolo fondamentale: gli immigrati non arrivano più nel nostro Paese – si chiami Europa, Italia, Marche o Corinaldo – per offrire manodopera a basso costo, ma per inserirsi nella società e integrarsi con la nuova cultura, per dare risposta al tasso di natalità sempre più basso, allo spopolamento dei nostri borghi (si tratta di un problema serio). È da un’immigrazione controllata, integrata, che cresce insieme alla comunità, che occorre partire; non un’immigrazione ghettizzata, emarginata perché è proprio da lì, dall’assenza di relazioni e di scambio culturale, che subentrano malcostume e problemi.

Nell’estate 2016 la Prefettura mi ha chiamato per accogliere i primi venti immigrati. Ammetto che ho affrontato la telefonata come un problema. Abbiamo parlato dei primi ragazzi stranieri in termini di numeri e ho provato un’estrema tristezza, poi sono arrivati a Corinaldo e ho potuto conoscerli, ascoltare le loro storie. Io, la Giunta e la comunità tutta abbiamo scelto di aprirci all’accoglienza più sincera e ne sono fiero. Guardare questi fenomeni con occhi aperti, non nascondersi, non creare barricate: in un lungo periodo, percorrendo un cammino insieme, l’immigrazione può davvero trasformarsi in una grande risorsa.

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