Più che il social, ci serve il sociale

L’editoriale di Gesualdo Purziani

In questa settimana sociale della Chiesa italiana, mi piace fare una sottolineatura su due termini tanto usati in questo tempo che viviamo.

Una volta il termine “sociale” era riferito al mondo del volontariato, ad un certo tipo di comunicazione attenta ai problemi della gente, ai centri di aggregazione. Oggi, pur mantenendo questi significati, il più diffuso fa riferimento al web, cioè “social network”. Si moltiplica per l’intero pianeta ciò che prima era il semplice ritrovarsi in piazza, al bar, a casa di amici, al cinema, allo stadio, al parco, in spiaggia. Tutto questo ora può essere tenuto in una mano, portato nel taschino della giacca, posto sul tavolo da lavoro, conservato nella borsetta; basta un telefono! Sei “social” se hai sempre uno di questi strumenti con te, se no sei fuori dal mondo sia reale che virtuale. E il rischio è che non si fa più differenza tra reale e virtuale, i piani si confondono facilmente, le nuove generazioni non trovano spesso le differenze, gli adulti fanno anche peggio, a volte.

Le pagine dei social su internet sono piene di notizie, dati, foto, storie,diari intimi, questioni che “un tempo” si raccontavano solo alle persone di fiducia, agli amici più stretti. Pensiamo di essere più liberi, quando invece tutto è costruito per sapere chi siamo, quali desideri abbiamo, quali inclinazioni, perché ci possa essere offerto il prodotto ambito.

Che il “social” torni ad essere “sociale”, quindi a far stare bene chi ne fa uso, a riunire le famiglie, a creare legami positivi, a stimolare la cultura, a generare pace, a riavvicinare i lontani; la “rete” torni ad essere una rete che salva come quella su cui si gioca a saltare più in alto divertendoci, come quella che sostiene i materassi su cui riposiamo, come quella che si intreccia nel momento di bisogno di qualcuno o della collettività.

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